Romanzo LA VEGETARIANA scritto da Han Kang e pubblicato da Adelphi nel 2016 con traduzione italiana di Milena Zemira Ciccimarra.
Yeong-hye è una ragazza taciturna, sposa un uomo che, prima che lei diventasse vegetariana, la considerava del tutto insignificante:
per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno.
La sua vita viene scossa da un sogno spaventoso: al risveglio mentre è ancora in camicia da notte, con i capelli arruffati, inizia a svuotare il frigo. Carne, pesce, ravioli ripieni finiscono nei sacchi neri della spazzatura.
Da quel momento non mangerà più nulla di origine animale.
Yeong-hye dimagrisce visibilmente e inizia a evitare il sesso; quando il marito le chiede perchè lei risponde:
è l’odore di carne. Il tuo corpo puzza di carne.
Il capo di suo marito per la prima volta li invita a cena: lei si prepara e indossa sotto l’impermeabile nero un paio di scarpe da ginnastica blu, ma non ha altra scelta. Ha buttato gli oggetti in pelle, non ha più scarpe eleganti in casa. A cena, insieme al capo e a sua moglie ci saranno il direttore generale e il direttore esecutivo dell’azienda, accompagnati dalle rispettive consorti.
La cena è l’occasione per conoscersi reciprocamente ma subito diventa motivo di disagio: vengono servite dodici portate, Yeong-hye non mangia la carne, non mangia quasi nulla e questo crea stupore e sorpresa.
Il marito contatta la famiglia d’origine di sua moglie per affrontare il fatto che è diventata vegetariana senza capire quale fosse la causa. Sono tutti stupiti, tutti la incitano a ritornare in sé, ma lei non cede: durante la riunione di famiglia, dopo varie pressioni da parte di tutti, il padre le colpisce una guancia con uno schiaffo deciso, poi inizia a forzare le sue labbra con un boccone di carne di maiale, vorrebbe costringerla a mangiare. Lei stringe forte i denti in segno di rifiuto. Lui la schiaffeggia ancora.
Lei afferra un coltello e si taglia un polso.
Da questo momento la storia diventa un processo verso la distruzione corporale e psicologica di Yeong-hye che mai si racconta dal suo punto di vista, ma viene ritratta attraverso tre sguardi diversi: quello del marito, poi quello di suo cognato e infine quello di sua sorella In-hye mentre Han Kang agilmente passa dall’uso di un io narrante nella prima parte del romanzo a una terza persona immersa con cambio di punto di vista.
Pensare a mia moglie non mi provocava né turbamento né confusione, ma una profonda sensazione di disgusto.
Gli uomini di Yeong-hye (il padre, il marito) sono personaggi che esercitano su di lei il potere del patriarcato fino all’imposizione e alla violenza. Seppure lei non si racconta direttamente, lo fa attraverso la sua voce inconscia che coincide con i sogni che rievoca, sogni che nascondono sotto il velo di una metafora o di un simbolo la genesi della sua ripulsa alla vita carnale.
Ma ho paura. I miei vestiti sono ancora bagnati di sangue. Nasconditi, nasconditi dietro gli alberi. Accovàcciati, non farti vedere da nessuno. Le mie mani insanguinate. La mia bocca insanguinata. Che cosa ho fatto in quel granaio?
e in un sogno successivo:
Ero sola, l’unica creatura rimasta nello spazio infinito. La pozza di sangue nel granaio…per la prima volta ho visto quella faccia che vi si rifletteva.
Il cognato, marito di sua sorella, è un artista squattrinato, dedito all’arte visiva: i due hanno messo su famiglia, il loro bimbo si chiama Ji-woo, una presenza che attraverserà discretamente tutta la narrazione.
A due anni dall’episodio della riunione di famiglia finita con il polso tagliato, il ricovero in ospedale psichiatrico e la separazione dal marito, Yeong-hye è molto dimagrita.
Il cognato sviluppa dei pensieri erotici, lei è l’oggetto del desiderio.
La prima suggestione sboccia da una immagine, una sorta di petalo bluastro che nasce tra le natiche dei bambini e poi scompare con la crescita: lui sa, glielo ha detto sua moglie in un discorso, che Yeong-hye aveva quel petalo anche a vent’anni. La macchia mongolica.
Attira sua cognata nel suo studio e le propone di pitturarle il corpo, infine farà delle riprese video.
Dipingerò dei fiori.
Tutto il corpo di Yeong-hye si colora di fiori sbocciati, una gioia di forme e di colori.
Lei sente un rinnovato impulso di rinascita, un desiderio sessuale ritrovato. Si accoppierà con suo cognato in un amplesso che lei percepisce come un piacere legato al divenire fiore, petalo, pistillo.
Dopo il sesso lei si chiede, ad alta voce, se i sogni finiranno.
I sogni?, Ah sì, la faccia…è così vero? Hai detto che era una faccia
Lui risponde mentre sta per addormentarsi. E lei:
Ma ora… ho capito. La faccia è nella mia pancia. Usciva dalla mia pancia. Ma non ho più paura. Non c’è niente di cui aver paura, adesso.
La protagonista è arrivata al punto a partire dal quale accelera il suo processo di trasformazione-distruzione psico-fisica. Siamo alla terza parte del romanzo, quella intitolata Fiamme verdi. Yeong-hye è ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Ch’ukseong, sua sorella va a trovarla con regolarità, i genitori abbandonano la figlia al suo disturbo e alla sua condizione. Il disamore, la noncuranza. E prima ancora l’imposizione, la violenza. Tutto concorre al desiderio di mutazione, di estraneazione dalla materia carnale, perché la carne è sangue e puzza, è dolore. Il delirio sognato adesso coincide con il farsi albero, pianta, con il nutrirsi di sola acqua, di essere toccata dal sole fino a coincidere con il divenire e con l’essere vegetale. La trasformazione si materializza nei capelli di Yeong-hye che assumono le sembianze delle alghe, nella fame d’acqua, nel bisogno, ancora più forte, di sole.
In questo mutarsi per raggiungere uno stadio che non le appartiene, lei deve rinunciare al suo corpo.
Perché, è così terribile morire?
Risponde a In-hye dopo che lei le ha gridato di temere di perderla.
Il suo peso è sceso sotto i trenta chili, dei suoi seni non è rimasto nulla. Non ha più le mestruazioni da tempo.
Tornano i ricordi vissuti da bambine, aneddoti della loro vita insieme rievocati come per dare una chiave di lettura all’intera storia narrata.
Si affaccia in conclusione il tema dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia mentre il viaggio si conclude in un finale che il lettore elaborerà non senza prima essersi posto una serie di domande. Quanto la realtà è condizionata dall’inconscio?
La trasformazione della protagonista non segue gli esempi più noti della tradizione letteraria del passaggio di forma, che avviene in senso esteriore, ma piuttosto vorrebbe seguire le leggi di una metamorfosi vera e propria.
Non segue neppure i miti antichi della trasformazione (Dafni trasformato in roccia, Narciso in fiore, Procne in usignolo) perché in quel caso solo gli dei sono capaci di realizzare la loro mutazione.
In questo romanzo senza Dei e senza un Dio quello che risalta è il modo in cui l’autrice analizza la realtà: rappresentando gli equilibri (inesistenti) fra uomini e donne, la grettezza delle convenzioni sociali, il disamore famigliare, la violenza. Il temperamento degli individui, le rielaborazioni personali del vissuto, l’incomprensione.
Han Kang lo fa con uno stile chiaro, che procede con precisione ed esattezza, e solo quando impatta con l’evocazione della natura intesa come ordine e serenità si mescola a immagini che si allungano verso suggestioni poetiche.
@soniaciuffetelli