Pubblico la mia intervista a Stefano Dal Bianco che si è aggiudicato il primo posto al premio Strega poesia. Parliamo del suo libro Paradiso, edito da Garzanti.
In Paradiso troviamo delle corrispondenze tra natura e persone. I cipressi che “non hanno più verde da rubare/alle cime dei monti/e puntano sul niente/mentre la cancellata in fondo al campo/apre sulla foschia. /Noi contempliamo il nostro non sapere/e vorremmo vedere/ma non viviamo nel terrore di non essere/ciò che potremmo sapere/e nessuno di noi si dà da fare/per diventare ciò che la foschia nasconde. In un altro punto del libro si parla del fatto che il poeta aspetta che i pensieri gli arrivino addosso e così le parole. Questo senso di inazione caratterizza la natura umana oppure è il sintomo di qualcosa che appartiene alla nostra epoca?
Mi accorgo che in Paradiso si allude spesso in positivo a una sosta, a un fermarsi che certo non è la specialità della nostra epoca. Questo fermarsi non è un atteggiamento passivo. Al contrario, il sostare è ciò che permette un vero atteggiamento di ascolto. Ascolto della lingua e soprattutto ascolto dei messaggi che provengono dall’ambiente naturale. La Natura è ciò che ci salva, ma se noi non riusciamo a coltivare quella disposizione ricettiva, quel silenzio interiore che è indispensabile all’ascolto, avremo perso ogni facoltà di contatto. Ottenere, raggiungere questo silenzio interiore, non è facilissimo: bisogna volerlo, e bisogna lavorarci per anni. Paradiso nasce da quello stato di grazia particolare, in cui mi trovavo durante il lock-down da pandemia. I versi che ha citato puntano il dito sulla differenza tra “sapere” qualche cosa ed “essere” quella cosa: una differenza abissale, che implica uno sforzo che raramente siamo in grado di esercitare. È così che di solito ci si ferma sul piano del sapere e del pensare, senza trasformazione interiore.
Nei suoi versi lei talvolta rappresenta alcuni elementi imponderabili della realtà. “Non c’è nessuna luce che riesca a illuminare / la vera fonte di questi rumori animali nel bosco”. Il perlustrare del cane Tito, il meditare e riflettere del poeta sono forse finalizzati alla conoscenza della realtà dell’ambiente? Oppure le attenzioni e l’osservazione non bastano perché a un certo punto si insinua un elemento inspiegabile, inafferrabile? “Eppure io non so se sia un mistero da risolvere/o sia semplicemente un fatto/da prendere così”.
La realtà è imponderabile. Si tratta di accoglierla per come è, senza cercare di razionalizzarla. Il pensiero, per come è comunemente inteso, fa da filtro, ed è pericolosissimo perché ci porta sempre a credere di riconoscere, in ciò che vediamo, ciò che già conosciamo, riportando anche le eventuali novità alla nostra esperienza pregressa. Non si tratta di abbandonarsi all’irrazionalità, condannando il pensiero di per sé, ma di essere coscienti di questo fatto, tentando di restare aperti.
Dai versi “Tante di queste inapparenti cose scritte” emergono echi dall’Infinito di Leopardi che approdano a una soluzione originale e diversa da quella dell’idillio. Le inapparenti cose scritte sono evocazioni presenti tra le righe? Cosa c’è oltre la siepe? Gli dei? La sacralità? E chi sono gli dei…sono quelli del paganesimo oppure sono direttamente collegati alle forze della natura?
È vero, mi accorgo ora che in quella poesia ci sono alcune parole in comune con L’infinito, a cominciare, sì, dalle siepi, dalla presenza dei silenzi, quelli che Leopardi definisce sovrumani, senza contare la partecipazione di un elemento temporale (le morte stagioni di Leopardi, e la presente / e viva) e forse qualche cosa d’altro. Non ci pensavo assolutamente. Le “inapparenti cose scritte” sono, molto semplicemente, le poesie che compongono il libro (inapparenti, cioè senza pretese), e “gli dèi della natura silenziosa” sono gli stessi che avevano parlato a Hölderlin, contemporaneo di Leopardi, e poi ad Andrea Zanzotto. C’è qualcosa che lega tutti coloro che si sono messi in contatto vero con la voce del paesaggio, al di là del tempo storico in cui l’hanno fatto, ed è la percezione netta che nella Natura vi sia qualcosa di importante che possiamo definire “divino”. Non c’è bisogno di essere dei panteisti per questo, né dei Romantici: si tratta di una esperienza diretta. Possiamo chiamare questi dèi con qualsiasi altro nome, ma l’esperienza è quella.
Nel libro si parla di memoria: la verità emerge più dal ricordo inteso come traccia del passato riemersa nel presente o più dalla immediatezza del dettato della scrittura che non si sofferma sulla rielaborazione ma che arriva come luce improvvisa nella mente del poeta?
Se non sbaglio, la parola “verità” compare soltanto una volta, con senso pieno, in Paradiso (p. 58), e non come valore assoluto ma come sensazione momentanea: in quel contesto, proporrei di intenderla come sinonimo di “presenza totale”. Le illuminazioni, quando ci sono, si impongono grazie a una esperienza nel qui-e-ora, ma non sono tali se limitate al tempo presente: l’epifania richiama sempre a sé i fatti di memoria individuale e le cognizioni di memoria culturale, a cominciare dalla tradizione della lingua, non solo letteraria. A fare la differenza in poesia sono due condizioni in chi scrive: sul piano della memoria individuale, bisognerebbe essere in grado di aver trasceso il proprio cosiddetto “vissuto” in modo che questo mai prenda il sopravvento, passando in primo piano; mentre la memoria culturale della tradizione dovrebbe essere a tal punto interiorizzata da escludere ogni affioramento intenzionale.
In “delle volte nel bosco è obbligatorio/pensare alla scrittura e dunque immedesimarsi/in una voce non tua/che su di te decide di sostare”; il bosco suggerisce l’ispirazione ma nello stesso tempo rivela l’impossibilità di tradursi e di essere tradotto in parole umane. In questo senso la natura ha una sua sacralità indicibile? Irrappresentabile?
Certo, ma questo non significa che il compito della poesia non sia quello di scagliarsi con tutte le forze per abbattere il muro dell’indicibile. Qualcuno, ogni tanto, sembra andarci molto vicino.
In Paradiso la natura non sempre è rivelatrice anzi spesso è misteriosa “ogni foglia che cade/costruisce una sua storia/e la racconta come può, con lievi digressioni/che nella calma parlano di te/e di altre cose altrettanto misteriose”. A chi è rivolto il tu di questi versi?
A me, a te, a chiunque sia qui. Il punto è che in presenza del dato naturale la nostra coscienza si espande. La Natura conferisce identità.
Grazie mille per questa riflessione su Paradiso e sulla sua poetica e congratulazioni!
Stefano Dal Bianco (Padova 1961) insegna Poetica e stilistica all’Università di Siena. Ultimi libri di poesia: Ritorno a Planaval (Mondadori 2001; LietoColle 20182), Prove di libertà (Mondadori 2012), Paradiso (Garzanti 2024). Si è occupato prevalentemente della metrica di Petrarca, Ariosto, Andrea Zanzotto, e di poesia del Novecento. Di Zanzotto ha curato il Meridiano Mondadori nel 1999 (con Gian Mario Villalta) e l’Oscar Tutte le poesie (2011). I suoi saggi di poetica sono raccolti in Distratti dal silenzio. Diario di poesia contemporanea, Quodlibet 2019.
Foto di copertina: il poeta Stefano dal Bianco, foto di Riccardo Rinetti.