Quattro notti tra attese e parole, speranze e rivelazioni sotto un cielo
di quelli che ci sono solo se si è giovani, gentile lettore. Il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo così potessero vivere uomini irascibili e collerici.
E dopo la narrazione, oltre il racconto, la poesia.
Il lungofiume e l’acqua confusa tra nebbie e dubbi, i dialoghi tra un io narrante che parla quasi senza agire e quando lo fa è per magnanimità nei confronti di Nasten’ka la ragazzina 17enne che vive attaccata ad uno spillo che la tiene in forzato contatto con sua nonna, cieca, povera e sola.
Un racconto che disvela due personalità, due privazioni, quella di Nasten’ka giovanissima orfana costretta ad una vita senza azione e senza passione e quella del protagonista, che coltiva dentro di sé il vuoto di una solitudine esistenziale e reale, che gode l’attimo di trovare un filo che lo colleghi a lei anche solo per un breve tratto di strada pur di sentirsi una volta nella vita fuori dalla sua stessa tenebra, in relazione con una ragazza che non può amarlo in quanto le sue speranze sono tutte riposte nell’attesa di un vecchio amore precedentemente sbocciato, ma che apprezza e prova buoni sentimenti nei confronti della disponibilità e dell’altruismo del protagonista senza nome.
Una Pietroburgo che preannuncia le atmosfere di Delitto e castigo e che contiene i germi della futura narrazione di Dostoevskij, quando l’autore abbandonerà la delicatezza e la bontà dei personaggi delle Notti Bianche ed entrerà, complice la sua biografia e il suo destino difficile, complici i lavori forzati in Siberia e il contatto con i suoi inferi, in storie che avranno a che fare con la lotta tra il bene e il male, con i demoni che mirabilmente descrive.
Notti che iniziano con la solitudine e il senso di abbandono degli uomini, quelli che partono per la villeggiatura e lasciano vuota la città che ormai sembra parlare al nostro protagonista attraverso i suoi edifici, le facciate delle case, i luoghi resi soli dalla mancanza di presenze e che termina con un ulteriore abbandono ben più sofferto in quanto sì forse inatteso eppure in fondo immaginato, ma è l’abbandono di una speranza concreta di relazione intesa come riscatto dalla solitudine. L’amore delle Notti Bianche è riscatto dalla solitudine e dalla noia anche per Nasten’ka che disperatamente un anno prima si era dichiarata al suo ragazzo, un coinquilino dell’appartamento affittato da sua nonna per arrotondare la pensione, un giovane in cui aveva riposto le speranze di una vita diversa quando aveva invitato lei e sua nonna al teatro per ascoltare il Barbiere di Siviglia, quando le regalava libri da leggere alla sera per superare il silenzio della solitudine e della noiosa tortura dello spillo.
Nasten’ka è logorata da una attesa, dovrà passare un anno prima che il suo ragazzo ritorni da lei, ma non è sicura se questo avverrà e per un attimo crede, sapendo che lui è tornato in città senza cercarla, di averlo perduto.
Un racconto che non lascia alla solitudine esistenziale una possibilità di trasformazione, né un premio o forse sì, ed è quell’intero attimo di beatitudine particolarmente apprezzato dal protagonista, non lascia un’ agnizione ma disvela la possibilità di andare oltre la fine, di raccogliere un momento che abbia il valore di un’eternità anche quando tutto sembra perduto, quel momento pregnante che permette al protagonista di riconciliarsi con se stesso; disvela dunque la verità di due animi umani senza sotterfugi e senza trucchi nell’amara purezza di una realtà che non ha bisogno di nulla al di fuori di se stessa.
E invano il sognatore affonda le sue mani, nei suoi sogni di un tempo come in un mucchio di cenere, cercando in quella cenere sia pure una sola scintilla per accendervi un nuovo fuoco e riscaldare il cuore già diventato freddo.
@soniaciuffetelli